Gabriele Zarotti

Una città in un giorno.







 

Aveva abbandonato il suo corpo lì. Come cappotto ad ogni cambio di stagione.

E lasciato il suo cuore libero di andare. Impaziente. A zonzo per la città.

 

Era il 21 marzo, primo giorno di primavera.  1958.

Infilò la porta a mare con l’impeto degli anni.

Poi, dopo l’abbrivio, smise di pedalare. Allargò le braccia,

lasciandosi trasportare come  brezza spensierata.

Incontrò biciclette che correvano nell’aria col ronzio di petulanti  catene.

Portavano in sella donne che si tenevano pudicamete la gonna con la mano,

sorridenti e libere, ai primi tepori.

E uomini, per nulla indifferenti al loro fascino, che si recavano al lavoro.    

Un intenso odore li inebriava. Di canapa e barbabietola.

Più dolce  dello zucchero filato.

 

Vagabondò a lungo attorno all’immensa piazza ovale,

cinta da platani giganti che, agitando pigramente i rami,

guardavano giovanette dalle gambe tornite,

mentre sfilavano sulla pista di cemento sui loro skettini gracchianti.

Ragazzi spavaldi le superavano, girandosi a sognare un incontro prodigo di intimità.

Più avanti, l’antico parco, ad un tiro dall’orto botanico,

dal grande  cancello apriva ad  un mondo di fiaba. 

Alberi con  radici lunghe e tormentate traversavano ogni sentiero.

Cespugli odorosi spuntavano all’improvviso, seminando intorno le loro seducenti essenze.

Fuori, il bianco palazzo corazzato di mille punte stava lì,  sull’angolo opposto,

a vegliare la strada più romantica del mondo.  

          

Pedalò a lungo. Senza sosta.

Sul percorso incontrò piccole panetterie

che sfornavano i loro pani dalle lunghe dita incrociate.

Il loro profumo si spandeva fragrante per le strade;

entrava dalle finestre che si aprivano generose ai raggi del sole.

Le basse case di mattoni a vista sembravano custodire gelosamente i loro giardini,

esuberanti di fiori e rampicanti, all’interno dei loro ventri, 

ignari della vita che si andava risvegliando intorno.

Quella di mattoni scuri, del poeta, stava lì intatta. Immobile nel tempo.

A parlarci di amori e grandi gesta.

Poco distante, da una finestra a piano terra,

giungeva l’aria di una struggente canzone americana,

mista ad un vociare allegro e spensierato. 

Una delle tante feste pomeridiane,

dove le passioni  così come sbocciavano finivano in poche ore.

Il nuovo cinema vicino alla macelleria mostrava con orgoglio le locandine di film

che lui amava vedere più volte,

quasi a fissarne le immagini, che si scolpivano indelebili nella sua mente.

Dal piccolo juke-box cromato appeso alla parete della latteria

uscivano le note di un rock

che rompeva l’atmosfera sognante di quel pomeriggio assolato.

 

Corse per le lunghe mura alberate.

Su e giù per terrapieni e  ripidi pendii: l’inverno appena trascorso ricoperti di neve.

Risuonavano ancora le grida festose di ragazzi che scendevano

con i loro slittini improvvisati.

Mentre all’orizzonte, nella piatta campagna, poche, isolate ciminiere

lanciavano verso il cielo le loro lingue di fuoco,

e nei rari fossi dentro la città, piccole salamandre muovevano lente l’acqua verde di prato.

Più lontano, il cimitero degli ebrei, immerso nei ricordi, stava lì,

come ammutolito nelle sue preghiere.

 

Arrivato alla vecchia piazza del mercato la trovò zeppa di bancarelle.

Dove magliette e jeans lanciavano il loro irresistibile richiamo.

Cosa non avrebbe dato per averne un paio. Un paio originale,

sbarcato  da quel mondo lontano che eccitava ogni sogno e fantasia.

A pochi passi, il piccolo ramo del grande fiume scorreva sonnolento,

portandosi via immagini di case che specchiavano le loro povere vanità.

 

Raggiunse il vecchio chiosco liberty. Aveva aperto gli occhi da poco.

Pronto a rinfrescare i mille giorni senza fine con variopinte granite e palline di gelato. 

Percorse d’un soffio la larga via che fendeva la città.

Attraversò l’incrocio. Con i suoi semafori ammiccanti. Girò a sinistra.

La piccola piazza del regime stava lì. Nella sua metafisica solitudine. Come sempre.

Ricordo di un tempo non molto lontano.

Tornò indietro.   Assalito da un improvviso richiamo.

Si infilò con piccola rincorsa sul ponte del  castello. Rosso di tramonto.

E, dopo un rapido sguardo, uscì dalla porta opposta,

nella grande piazza lastricata con mille ciottoli di fiume.

Svoltò. Una. Due. Tre volte. Si fermò davanti alle vetrine del negozio di dischi,

sotto i bassi e sghembi portici del Duomo.

Contò le poche monete che aveva in tasca:

avrebbe dovuto aspettare ancora per varcare la soglia, sistemare la cuffia e ascoltare l’ultimo disco di successo.

 

Quella città, così grande e seducente ai suoi occhi, era tutto il suo mondo. 

Lo aveva accolto ancora bambino. E lo vedeva crescere nella sua avvolgente immobilità.

Languidamente sospesa, come bolla di sapone, tra terra e cielo.

La sera rincasò, ubriaco di emozioni, in attesa del giorno che sarebbe venuto.

E così avrebbe fatto per anni.  Ad ogni cambio di stagione.

 

 

 

 

 

A Ferrara, emersa dalle nebbie del tempo.

 

 

 

 

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Veröffentlicht auf e-Stories.de am 21.05.2020. - Infos zum Urheberrecht / Haftungsausschluss (Disclaimer).

 

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